L’ultimo spettacolo targato ALDES in prima assoluta a Roma per la stagione di Orbita|Spellbound “In Levare”.
“Ilenia Romano ed Erica Bravini sono tra le danzatrici più stupefacenti di questi giorni.
Romano l’abbiamo incontrata di recente a Teatri di Vetro con il suo “Strings”, un lavoro che avrebbe bisogno di essere visto e rivisto, isolati da altri pensieri e da altre vite, analizzato nel dettaglio del suo corpo a corpo con le vibrazioni dell’impossibile “Voyage that never ends” per contrabbasso solo di Stefano Scodanibbio.
Il percorso di Erica Bravini l’ha portata invece a posare il piede nei linguaggi più distanti, dal progetto “Fallen angels” con Michael Incarbone, all’ipnotico “Rive” di Dalila Belaza, nell’ultima estate di Santarcangelo.
Entrambe vantano una qualità tecnica che va al di là del mero virtuosismo e che continua a farne le danzatrici perfette per quel personale “teatro di danza” (V. Valentini) allusivo, crepitante, esigente, che Roberto Castello porta da trent’anni sulle scene.
Un lessico corporeo, quello da lui adoperato, che è fatto di presenza fulminea e non mediata del gesto sia quando si esprime internamente a un discorso, sia quando si richiede, come spesso accade, un cambio d’argomento e di livello comunicativo. Un linguaggio che si imbeve continuamente di cose, allo stesso tempo lontano da ogni astrazione e da ogni crasso mimetismo, in cui gli sguardi non sono meno importanti dei passi (guardare per credere come queste qualità trascolorano anche in “Ice Cream” di Giselda Ranieri, una performer che di quel linguaggio è oggi la massima interprete, la portavoce) e che, partendo da elementi rigorosamente danzati, si apre alle manifestazioni più formicolanti di un mondo inafferrabile come l’attuale, confermando alla danza la qualifica di discorso sull’oggi.
Ora entrambe, Bravini e Romano, si presentano in scena e, in questo caso, sono la scena di “Il sesso degli angeli”, l’ultimo lavoro del coreografo tre volte premio Ubu, che debutta per la stagione 2025 di Orbita|Spellbound, “In Levare”.
Entrano dal fondo del bislacco, infelice palco del Teatro Palladium, faccia al pubblico ma leggermente squintate, percorrendovi pressappoco un’immaginaria diagonale – e altre diagonali, o passaggi frontali, circolari, elicoidali percorreranno nella successiva ora.
Su di loro batte uno spietato, secco quattro quarti che non le abbandonerà mai, come un metronomo col primo tempo scandito da una campanella, gli altri tre sonori come su una cassa, ora allargata ora ristretta nella risonanza e, impercettibilmente, nell’agogica, da un minimale lavoro sul disegno sonoro. E se sottile è questo intervento nel suono, al netto di un paio di ingressi, brevi, di altri strumenti, appena più marcato è quello sulle luci, un piazzato oggetto di qualche rapido smorzamento d’intensità: nessun colore, nessuna particolare modifica di direzione o sussulto di movimento.
Oltre alle due performer in vestagliette prendisole da massaia – al che uno potrebbe pensare che gli angeli del titolo siano, ironicamente, quelli del focolare, e che il sesso entri in scena quando Bravini si sfila, una dopo l’altra, cinque, sei paia di slip, sempre avendone un altro sotto, o quando balugina qualche spagnoleria, erotizzata a freddo solo per lo scatto di un paio di allusivi sopraccigli – oltre a loro, nulla. Anzi, solo un panino imbottito avvolto nella carta da cucina e una limetta da unghie.
Ma no: è un’altra la nudità di quei corpi, che suonano scoperti come due voci sotto cui l’orchestra tace, e per cui il ritmo è la sola gabbia, impegnati in scatti per lo più omoritmici, ma comunque sempre in rapporto con la scansione del gigantesco metronomo, ora assecondato nei tempi forti, ora sbalzato nei deboli, ora provocato negli interstizi.
Saltellano come bambine alla ricreazione, si spostano seguendo quelle tracce lineari da una parte all’altra senza bisogno di scomodare rappresentazioni, salvo evocare diversissime e appena aleggianti memorie, subito scomparse non appena identificate: un flamenco, come si diceva, sciamanismi, tarantole, persino il balletto.
La nudità è invece un’altra, ed è triplice: la prima è quella, già anticipata, dell’astensione da ogni sovrastruttura tecnica, le luci, la musica e il resto – si confronti, a riprova, la tempesta sensoriale del precedente “Inferno”, che proprio nell’abbacinante accanimento degli stimoli rivendicava il senso del titolo.
La seconda è la nudità del vocabolario e della sintassi di Castello, quasi una ri-messa alla prova della loro validità e autosufficienza comunicativa sciolte non solo da una tesi, ma da un tema purchessia a cui appuntarle, come se parlassero con il solo significante.
E, infine, quella che si intravede tra sbarra e sbarra di quella gabbia di luce/meno luce/buio, di un-due-tre-quattro perseverante alla disperazione: se si sopravvive all’effetto trance, vi si scorge proprio qualcosa di atavico, una struttura dell’umano, a voler un po’ esagerare, qualcosa come il tamburo delle nostre radici, chissà, segnatempo dei nostri passi, e le albe e i tramonti di tutti gli uomini e le donne prima di noi – il tutto, si badi, senza che si segni un baffo di misticismo, senza una posa profetica che sia una, senza che uno strumento ad arco venga molestato, o un vocalizzo terragno emesso da una qualche madre-terra.
Una nudità, insomma, dell’umano, della pura memoria di corpi passati che riaffiora come un tic, come un rapido sogno estivo fatto in pieno giorno.”